I soprannomi del tuo paese – Taranto

Cuzzarule

Tarantini, gente di mare, non potevano che avere un epiteto marinaro: “cuzzarúle” (coltivatoti di cozze), perché la mitilicoltura è stata per secoli una prosperosa attività che ha caratterizzato soprattutto gli abitanti della città vecchia. “Cuzzarúle de Tarde vecchie” (Coltivatoti di cozze di Taranto vecchia), dunque un tempo, perché oggi anch’essi sono diventati metalmeccanici, e la mitilicoltura conta sempre meno addetti, ma non per questo ha perso in qualità. Intorno ai personaggi della Taranto vecchia sono sorte storie, vere e fantastiche; su di essi si sono coniati epiteti ed essi stessi,sono diventati protagonisti di letteratura. Come Pipijéle, “cuzzarúle” descritto da Giuseppe Cravero nella sua “Strenna perpetua tarantina”. Pipijéle, dunque, non era come dire? un mostro di intelligenza. E per questo veniva spesso preso di mira dai suoi compagni di lavoro, come quella volta in cui la sua “zita” (Fidanzata) gli preparò una “cazzata” (focaccia) e gliela consegnò prima che egli andasse al lavoro. Pipijéle prese la focaccia e la nascose in un ripostiglio della barca, ma l’operazione fu fatta alla luce del sole, sicchè i compagni se ne accorsero e s’impadronirono della “cazzata” lasciando nell’angoscia il poveraccio, che si disperava non tanto per essere rimasto a digiuno quanto per non aver potuto gustare ciò che gli aveva preparato la “zita”. L’aneddoto, anche se piuttosto sciapito, divenne tuttavia la base di una delle prime canzoni dialettali tarantine:

“Pipijéle lu zetijedde, fatiave alle cetrédde, ind’o viche Spirde Sante s’ha truvate ‘na car’amante” (Pipijele il fidanzatino, lavorava in pescheria, nel vico dello Spirito Santo s’è trovato una cara amante). Le ingiurie, a Taranto, prendevano quasi sempre spunto da personaggi che non brillavano, e proprio per questo offendevano maggiormente: Rocche Miule, per esempio, Ronze Muline, Petuésce, Pascale Vúcchele, Meste Jáchele, Fenanicchie, Cremmatíne, Mangiafiche, Ciccie Caure, Angiolettone, Biacocche, Nicole ‘u cecate. E’ merito di Cosimo Acquaviva se questi personaggi sono stati consegnati alla storia attraverso le pagine di “Taranto tarantina”. Meste Jáchele (mastro Giacomo), per esempio, era un musicante che una volta l’anno insieme a due compari, Scaramelle e Presicce suonatori di piffero e di tamburo, accompagnava la processione dei venditori di acqua potabile (gli “acquarúle”) fino al convento di S. Francesco da Paola dove c’era un pozzo. Durante la processione venivano cantati inni sacri diretti da Meste Jáchele, ma il corteo veniva immancabilmente chiuso da una frotta di monelli che cantavano: “‘Mbrá, ‘mbrá e n’otre ‘mbrune, Meste Jáchele sté a resciúne, s’abbusche menza panédde, Meste Jáchele tene ‘a pédde” (Brà, brà e un altro bruno, Meste Jáchele sta a digiuno, si guadagna mezza pagnotta, Meste Jáchele è sbronzo). Ciccie Catire (“caure” significa granchio) era l’emblema di questa umanità. Di lui scrive Cosimo Acquaviva: “Fu un caposcuola, un vero artista, un autentico maestro di coloro che sanno fare… sberleffi orali. Ma che perfezione, che sonorità per l’aer terso”. Insomma, maestro di pernacchia. Ciccie Caúre, dunque, era riuscito a raggranellare, elemosinando, cinque o sei lucenti monete da una lira d’argento, dalle quali non si separava mai. Qualcuno della sua numerosissima famiglia, tuttavia, si era accorto di quel piccolo tesoro e perciò decise di impadronirsene. Il colpo fu portato a compimento mentre Ciccie Caúre dormiva: gli furono portate via le lucenti monete d’argento e sostituite con altrettante da due centesimi, che erano 1 di colore scuro perché di bassa lega. Quando Ciccie Caúre si svegliò e si accorse dell’accaduto scoppiò il finimondo perché non sapeva darsi ragione come mai quelle monete “aiere evene vianghe e mo so gnure” (ieri erano bianche e ora sono nere). Non il furto, insomma, lo addolorava (probabilmente non se ne rendeva conto), ma il cambio del colore.

Il monumento alla stupidità era tuttavia Baicocche, il quale elemosinando arrivò un giorno a Pulsano. Bussò alla porta di una casa di contadini dove gli dettero da mangiare un piatto di fagioli, che probabilmente non erano stati cucinati a dovere e provocarono al poveraccio lancinanti dolori di pancia. Baicocche, allora, contorcendosi andò al cimitero e vedendo una fossa da poco scavata vi entrò e si distese convinto che da li a poco sarebbe morto. Il custode del cimitero che aveva sentito dei lamenti, andò a vedere di che cosa si trattava e giunto nei pressi della fossa gridò: “Chi va là?”. Al che: “So’ l’anema de Baicocche” (Sono l’anima di Baicocche), fu la risposta. E facile immaginare la reazione tutt’altro che pacifica del custode che non certo con le buone convinse Baicocche a ritornare al momento opportuno. Micidiali erano nella Taranto d’altri tempi gli scherzi dei “panarédde” (monelli), che la sera diventavano i padroni della città vecchia. Usavano stendere nei vicoli un filo scuro ad altezza d’uomo. 1 signori che passavano da quelle parti, impettiti con il cappello a tuba, urtavano contro il filo e il cappello volava via tra le immancabili imprecazioni. Al che i “panarédde” intonavano il loro canto di vittoria: “Attiénde uagnú! Sté avene ‘nu cristiane. Quiste è ‘u muménde ca n’amm ‘a prisciáre” (Attenti ragazzi! Sta arrivando un signore, questo è il momento che ci dobbiamo divertire).

Alcuni sopránnomi individuali

O balene (donna grassa, obesa). O giandarme (donna autoritaria). O grancasce (donna grassa e bassa). O lumafuéche (da fiammifero; donna irosa). Baicocche (uomo scemo, da cui la frase era: “Jev’u ttimpede baicocche”, In quei tempi beati). Cannarúte (golosone). Cape d’aciedde (testa di uccellino). Cardille (mingherlino e asciutto come un cardellino). Cascettieddhe (uomo con la gobba). Cauriicche (granchíolino). Cecáte (cieco; soprannome dato, tra gli altri all’estroso <<Nicola>> ‘u cecáte”, un suonatore girovago che divertiva i passanti con la sua chitarra e con brani osceni che utilizzavano musichetto in voga negli anni passati). Chianghia chianghie (nomignolo d ad un ricco proprietario che si lamentava sempre delle su condizioni economiche). Cibalgina (nomignolo originato dalla smania di, “apparecchiare” la scrivania di medicinali ogni qu si sentiva pocobene). Cìcerícchie (piccolo cece; clitoride) Clinch’e seje (cinque e sei). Cócola cócola (donna claudicante). Cremmatíne (persona che soleva rimandare sempre all’indomani quello che poteva fare in giornata).Cucce cucce (per l’ordine che ripeteva spesso al suo cane A cuccia, a cuccia”). Cuer’n gule (corno in culo). Maccarone (maccherone; stupido). Macchiarole (chi se ne andava fra le Macchie a raccogliere
le erbe).Mamma cam’ uscihe (“Mamma, mi scotto!”). Menza sciamméreche (mezza marsina, ovvero signorotto). Menzapanédde (da <<panedde>>, pagnotta). Méste Jachele (nomignolo dato a un tal Giacomo, un suonatore di grancassa che, insieme con due colleghi musicanti, accompagnava la processione dei venditori d’acqua potabile fino al convento dei Paolotti di San Francesco da Paola). Mest Sazizze (mastro Salsiccia). Mienz cule (mezzo culo). Niscìúne (nessuno; uomo da poco). No pózze resístere (“Non resisto”). Pettenícchíe (pettinato; affettato). Reggine taitu (donna che si dava molte arie) Sparame ‘mbiétte (altezzoso, scostante). Sparitiédde (pesce piccolo; nanerottolo). Spasulate (povero in canna). Squartajaddíne (famiglia di macellai). Stuérte (uomo sciancato). Tartaggiule (parlava balbettando). Tocle tocle (malandato). Trapulone (imbroglione furbo). Trentasétte e uno (nomignolo affibbiato ad un tale che aveva sempre… un po’ di febbre). U scuresciute (male in arnese; povero).